domenica 3 aprile 2011

Il Cuore e la Spada: riflessioni dopo un seminario di spada giapponese tradizionale

di Maurizio Colonna

Lungi dall’essere il solito reportage di un evento sportivo (che già accostare “evento sportivo” a “spada tradizionale giapponese” mi fa a dir poco senso), quella che mi appresto a scrivere è la mia personale riflessione su ciò che ho vissuto non solo il 5 marzo 2011, ma anche i dieci giorni a seguire.

Sono stati dei giorni “risolutivi” che hanno inesorabilmente mutato il mio modo di vedere e intendere le cose, perché dopo quasi 20 anni di pratica marziale ho capito appena adesso cos’è “Arte Marziale”.

Viviamo in un’epoca in cui si valutano, ricercano ed esaltano l’efficacia, la praticità e la “presunta” realisticità di un sistema marziale. Molti adattano, reinterpretano, concettualizzano, fanno analisi tecnico-tattiche, studiano genealogie, si soffermano sul messaggio educativo usando un linguaggio “sportivo”. Il praticante di arti marziali è spesso, se non sempre, chiamato “atleta”. Senza nulla togliere all’importanza dello sport con i suoi contenuti di educazione, rispetto, mantenimento di una buona salute, solidarietà ecc., ma io non sono un atleta, io sono uno spadaccino.

A questo punto molti potrebbero chiedere che senso abbia praticare un sistema da guerra (sì era stato concepito per la guerra; signori “pacifisti dotati di superiorità morale” che praticate arti marziali, mi spiace ma è così…) ormai obsoleto e superato tecnicamente e tecnologicamente. Potrei ironicamente rispondere che ha più senso di ventidue persone che inseguono un pallone, o ancora più umoristicamente che ha più senso di tre persone che cercano con una scopetta di far scivolare una pietra sul ghiaccio. Ma non ho intenzione di trattare qui il rapporto tra sport e arti marziali.

Soprattutto negli ultimi dieci anni ho avuto modo di conoscere diversi istruttori europei esponenti di così dette “federazioni di arti tradizionali giapponesi” capeggiate da “gran maestri” nipponici. Ne ho conosciuti di eccellenti tecnicamente, molto devoti alle loro discipline (non entro nel merito dell’autenticità o meno del lignaggio tradizionale che rappresentano), ma dopo aver lavorato, conosciuto e vissuto con due “Maestri” di spada giapponese, non esagero nel dire che la differenza è come tra il giorno e la notte. Non tanto per una questione di abilità tecnica o fisica, ma per il modo d’intendere, vivere e praticare l’arte marziale.

Sabato 5 marzo 2011, Bari ha avuto come ospiti Toshiyasu Yamada e Takara Takanashi; il secondo è allievo ed assistente del primo, Shike del Sekiguchi Ryu Battojutsu, oltre ad essere anche una delle due sole persone autorizzate in Giappone ad insegnare la propria linea tradizionale di Niten Ichi Ryu Heiho.

Qual è la differenza con gli altri istruttori che ho frequentato e conosciuto? La “autenticità” innanzitutto nel praticare Arti Marziali; il ché non vuol dire semplicemente praticare un’autentica arte marziale giapponese, ma la capacità di entrare nella vera dimensione marziale e di effonderla in chi pratica insieme a loro.

Noi occidentali misuriamo e compiamo le nostre scelte nelle arti marziali basandoci su di un sottointeso “culto della personalità”; seguiamo prima il maestro, poi l’arte e valutiamo la validità e l’efficacia di quest’ultima in base alle abilità personali e le peculiarità della personalità di chi ci insegna. Cerchiamo un guru insomma. Purtroppo, alcuni esperti giapponesi di arti marziali l’hanno capito e con un po’ di “malizia” ne hanno tratto profitto (avere gli occhi a mandorla non vuol dire essere simpatici e buoni come il maestro Miyagi del film Karate Kid).

Non ritengo che di per sé quest’atteggiamento sia sbagliato, perché potremmo vederlo come un semplice adattamento alla forma mentis occidentale, soprattutto americana. Io rispetto questo punto di vista e lo condivido “parzialmente” solo a patto che si parli di adattamento tecnico agli scenari di lotta attuali in cui l’efficacia di un dato sistema marziale potrebbe essere valutata e impiegata.

Ma io non cerco questo, o meglio non cerco solo questo. La mentalità nipponica in generale, traendo la conclusione da dialoghi con i maestri Toshiyasu Yamada e Takara Takanashi, è devota al “simbolo”, alla “funzione” di una data persona, non al soggetto come individuo. Nelle arti marziali (tradizionali), l’insegnante è il risultato di tutte le generazioni di maestri e praticanti di un determinato stile che lo hanno preceduto. Quando mi inchino al maestro, io mi inchino ad una tradizione, ad un’esperienza continua, che ha avuto sì un’origine e potrebbe avere una fine, ma nel momento presente (che è l’unico momento autentico nel “qui ed ora”) è incarnata dallo Shihan attuale. Parimenti, quando un giapponese si inchina al proprio imperatore, s’inchina alla storia e alle tradizioni, quindi all’anima, del suo popolo. Una visione molto distante dall’anacronistica sottomissione ad un Re di un casato europeo. In Europa i Re sono rappresentativi, in Giappone l’Imperatore è funzionale.

Molti concorderanno che si tratta di concetti bellissimi, ma altrettanti si chiederanno “Ok, ma a che serve”? La questione è che non deve servire in senso immediatamente pratico, ma è un approccio vitale se vogliamo passare dall’addestramento marziale, all’educazione marziale.

Diciamocelo chiaramente, tutti sono capaci di picchiare un loro simile, o di usare un utensile per usare violenza. Addestrare una persona alle tecniche marziali è relativamente semplice. Indossare dei pantaloncini satinati e un paio di guantoni, salire su un ring per darle di santa ragione e prenderne altrettante è fattibilissimo e, ovviamente, ammirevole; richiede determinazione e coraggio. Ma anche in questi casi si potrebbe rigirare la domanda “Ok, ma a cosa serve?” Per la gloria? Per il successo? Per il denaro? Ok, motivi “validissimi”, o quanto meno logici. Ma non chiamiamole “arti marziali” (su questo riconosco l’onestà intellettuale dei praticanti di tali discipline nel chiamarle “sport da combattimento”).

Perché non sarebbero arti marziali?

1) Partiamo dal secondo termine, ovvero “marziale” che deriva da “Marte dio della guerra”, in giapponese guerra è “Bu”, in cinese “Wu”, da cui Bu-do e Wus-hu. Guerra appunto. Avete mai visto un ranger della 101^ aviotrasporta americana indossare dei pantaloncini satinati per affrontare un miliziano iracheno? Avete mai visto un SAS britannico o un membro del 9° Col Moschin usare dei guantoni per neutralizzare un talebano? A questo punto mi si potrebbe ricordare l’esistenza della diffusione nelle nostre città di sistemi marziali di autodifesa adottati da vari gruppi militari d’elite del mondo. Ok. Ma credete veramente che andando in palestra due volte alla settimana per una o due ore a sessione, pagando una cinquantina di Euro al mese, conseguirete l’efficacia e l’esperienza di un uomo, selezionato psicologicamente e fisicamente a priori da personale esperto, che svolge un addestramento continuo di anni? Senza contare l’esperienza in scenari di guerra. Ma, soprattutto pensate che quello che viene proposto in questi corsi da “fitness club” siano tutte le autentiche tecniche che questi specialisti impiegano? Sarebbe come dire che un ragazzino di 16-19 anni che gioca a soft-air la domenica mattina, consegua la stessa efficacia, esperienza tattica e competenza di un militare d’elite di circa 30-35, con anni di addestramento alle spalle (senza contare le missioni). Ridicolo!

2) Analizziamo il termine “arte”. Superficialmente può indicare una metodologia nel compiere uno o più gesti tecnici con abilità. Ma è di senso comune ormai considerare il termine “arte” (soprattutto non accostata ad altre parole) come eccellente esecuzione di una rappresentazione in una sublime disposizione d’animo e di spirito, dove la peculiare interiorità dell’artista si estrinseca e si manifesta nell’opera (d’arte per l’appunto). L’abilità tecnica è superata. Non è solo una questione di perfezione esteriore del gesto, ma diventa espressione artistica. Nelle arti marziali questo non dovrebbe prescindere dall’efficacia pratica dell’azione tecnica. Concordo sul fatto che alcuni sistemi marziali tradizionali asiatici si siano svuotati dei loro contenuti d’efficacia, e sospetto che sia questo il motivo dell’esistenza dell’identità “arte marziale tradizionale = movimenti estetici marziali privi di efficacia pratica”. Ma non per tutte le tradizioni è così. Anzi per la maggior parte di esse è proprio il contrario.

Nel Sekiguchi Ryu Battojutsu, tecniche d’estrazione rapida della spada, il lato “arte” ed il lato “marziale” sono perfettamente equilibrati e combacianti. Impariamo ad usare la spada per applicazioni tattiche perfettamente applicabili ad un contesto di combattimento reale (nonché per tagliare realmente). L’atteggiamento interiore, il Cuore, è il principale motore della spada. L’Arte Marziale nella sua più alta accezione è lo Spirito che si manifesta nella Materia (alla faccia degli scientisti razionalisti, me lo si consenta; non si può ridurre il combattimento ad un problema da risolvere “con razionalità”). Nella mentalità orientale, giapponese in questo caso particolare, il dualismo Spirito-Materia è completamente assente. Le due istanze coesistono e sono in una relazione imprescindibile. L’atteggiamento e la disposizione di spirito sono l’elemento basilare nell’esecuzione dei kata, secondo Yamada sensei.

Nel Niten Ichi Ryu, che è una scuola di strategia che utilizza come mezzo di pratica le spade, non la si definisce Kenjutsu (“scherma” nel senso più stretto), ma Heiho, “strategia”. In questo sistema l’esercizio tecnico-fisico è il veicolo per l’allenamento dello Spirito. Parliamo, secondo quanto mi ha detto Takara sensei, di meditazione in movimento. Non è una scuola composta da tante tecniche (a questo proposito vi ricordo che il celeberrimo Miyamoto Musashi, autore del Libro dei Cinque Anelli, ne è il fondatore), e ad impararle fisicamente non ci si mette molto, ma i tempi di pratica per conseguire la maestria nello stile, corrispondono a diversi anni.

Questo è Budo, questa è Arte Marziale, questa è la Via.

Ad allenare il corpo di un uomo ai gesti del combattimento, non ci si mette molto. Ma esercitare la mente, lo Spirito del Guerriero, questo può richiedere anni.

Gli stili tradizionali di arti marziali giapponesi, Koryu, hanno il vantaggio di secoli passati nel forgiare le menti ed i corpi di uomini che avrebbero combattuto in vere guerre e sarebbero potuti morire realmente. Ponendo che non potremo mai riprodurre un combattimento per la vita (per la vita, eh? Non combattimenti su ring, o in gabbie, gabbiette, ottagoni ecc.) a scopi di mero allenamento ne consegue che quello che uno stile tradizionale di arti marziali ha in più rispetto ad uno stile moderno, non come qualità, ma come elemento fondante, è il susseguirsi di generazioni che hanno riversato nel corpus del programma della scuola le proprie esperienze di combattimento reale. È un sistema rigorosamente empirico in cui il raffinamento tecnico giunge giocoforza a posteriori.

La conclusione a cui erano arrivate queste generazioni di guerrieri è che l’elemento chiave della vittoria (= sopravvivenza) è in primis nell’atteggiamento mentale, nello sviluppo spirituale del praticante, unitamente a quello fisico, tattico e tecnico. Ma, in verità, non ci sarebbe bisogno di lussarsi articolazioni, fratturarsi e procurasi lividi tre volte alla settimana per essere realmente efficaci. Non che non possa essere utile un allenamento a “contatto pieno” (lo facciamo anche da me in palestra), ma stiamo riproducendo degli effetti (quasi) reali in un contesto che rimane sempre lontano dalle autentiche condizioni di stress da combattimento, oggi riscontrabile solo in scenari di guerra.

Un allenamento in un sistema tradizionale non riproduce uno scenario di guerra reale, ma non mi risulta che lo faccia nessun altro sistema moderno. Neanche in esercitazioni militari ufficiali è mai stato riprodotto al 100%. Ma chissà perché ai tiratori scelti vengono insegnate tecniche di respirazione e rilassamento simili (se non desunte) allo Yoga e allo Zen. Ai gruppi operativi speciali viene insegnato che tipo di atteggiamento mentale assumere in caso di cattura e interrogatorio da parte del nemico. Tutti i gruppi di incursori del mondo utilizzano tecniche d’infiltrazione e d’azione perfettamente sovrapponibili a quelle contenute in manuali di Ninjutsu del ‘600 (con le ovvie differenze di equipaggiamento in dotazione per motivi di evoluzione storica e tecnologica). In questi ultimi, spesso, se non costantemente, si fa riferimento alla corretto atteggiamento mentale e spirituale del praticante.

Ergo, nessun sistema codificato recentemente ha mai introdotto qualcosa di sostanzialmente nuovo, se non l’ovvia dotazione di strumenti di pratica e allenamento tecnologicamente più avanzati. Esempio: pilotare un biplano a elica del 1917 richiede la stessa preparazione teorico-pratica di base necessaria a pilotare un odierno F-22 Raptor. Cambiano unicamente le prestazioni, le strumentazioni di bordo e le potenzialità del proprio mezzo; ciò richiede una maggiore conoscenza del pilota di queste innovazioni, ma i principi base del volo di un aereo non sono mai cambiati.

In conclusione, tengo a precisare che queste sono solo le mie personali opinioni e riflessioni. Né più e né meno. Ci sarebbe anche molto altro da scrivere, ma quello che ho vissuto e provato, durante questi giorni passati coi maestri Yamada e Takara è stato di essere entrato nella reale dimensione dell’Arte Marziale: un sistema olistico e per certi versi esoterico che considera la dimensione guerriera sia dal punto di vista fisico, ma anche è soprattutto dal punto di vista mentale senza mai tralasciare l’efficacia pratica.

Cuore e Spada.

Nessun commento:

Posta un commento